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del prof. Giuseppe Tidona
Una delle correnti di pensiero dominanti la psicologia della prima metà del Novecento era il behaviorismo. I behavioristi (o comportamentisti) pensavano che l'unico, vero modo per conoscere l'uomo fosse quello di osservarne il comportamento esterno, gli atti visibili, tutto ciò che ha un impatto nel mondo "comune" e che, quindi, possa essere misurato e valutato. Per quello che importa ai seguaci di questa teoria, la coscienza, i sentimenti, le passioni, i pensieri potrebbero anche non esistere, data la loro scarsa rilevanza scientifica, in quanto nascosti, sfuggenti. H. Gardner (1999) riferisce una storiella che, nella sua brevità, ci permette di andare al cuore di questo modo di vedere (comunque ancora presente, anche se non più dominante). Due psicologi americani comportamentisti si incontrano nella hall di un albergo dopo una nottata passata con le rispettive piacenti mogli. Uno dice all’altro: "Ti vedo contento e rilassato, ne devo desumere che stanotte…. è andata proprio bene! Ma tu, invece, cosa mi dici, come è andata a me?". Non c’è barzelletta migliore di questa per esprimere la filosofia delle competenze di matrice behaviorista: non esiste veramente emozione o idea dentro di te finché tu non la "dimostri", non la esteriorizzi e conseguentemente non riceva un feedback da chi ti circonda.
La filosofia delle competenze
E’ adesso di moda nella scuola l’assunto che le conoscenze dello studente devono diventare un’esecuzione, una prestazione oggettivizzata e misurabile, altrimenti non si può affermare che esse esistano. Sennonché paradossalmente possiamo dire che la vera competenza si vede ……quando non bisogna mostrare a nessuno la propria competenza! E’ infatti notorio che in situazioni formalmente controllate gli studenti (mi riferisco ai pochi, ai migliori in senso assoluto, ovviamente) offrano performance impeccabili. Diversa è la situazione quando noi li osserviamo (se riusciamo, evidentemente) nel loro ambiente "naturale", di fronte magari a problemi inconsueti: questi stessi alunni seguiranno una procedura più incoerente e la loro metodologia ci sembrerà molto più "infantile". Hanno imparato qual è la strada maestra, quando glielo abbiamo chiesto hanno saputo indicarcela con precisione, ce l'hanno descritta, ma adesso non la seguono. Che cosa è successo? Il fatto è che i contenuti sono stati sì acquisiti in maniera corretta e logicamente avveduta, ma sono come una sovrastruttura che si è sovrapposta al sapere naturale, ingenuo che il ragazzo già possedeva da prima e che riaffiora in situazioni non "formali", laddove non conta più tutto ciò che è scolastico, ciò che tu "sai" (nel senso di sai recitare o eseguire quando qualcuno te lo chiede), ma ciò che tu "sei". In altri termini abbiamo preteso, da insegnanti, che gli alunni parlassero come libri stampati, con un linguaggio appropriato, e loro così si esprimono nelle situazioni che sanno essere formalmente controllate. Ci accontentano. Si adeguano. Ovviamente diverso è il discorso se gli studenti devono comunicare quello che è realmente dentro di loro, in una situazione di libertà, laddove non sono giudicati da nessuno: allora emerge il loro vero essere, la loro autentica comprensione. Seguono il procedimento che l'istinto suggerisce loro. Gli insegnanti sanno anche che questa cesura non si produce solo tra situazione scolastica e situazione non scolastica, ma addirittura tra le varie discipline, nel passaggio da un insegnamento all'altro (!): quante volte il docente di Italiano constata che il ragazzo, il quale produce normalmente temi sintatticamente ed ortograficamente corretti, quando un tema gli viene assegnato, scrive, invece, ad es., una relazione di scienza sgrammaticata, magari accurata nel contenuto, ma dalla forma zeppa di errori? Chiaramente quello che gli era richiesto era scienza, non italiano, pertanto l'alunno non ha pensato alla struttura dell'elaborato, non ha scritto, del resto, per l'insegnante di italiano, il quale non avrebbe dovuto vedere quel documento che, invece, il docente di scienze gli ha mostrato. Si è espresso, insomma, con le sue strutture linguistiche, quelle a lui più naturali e congeniali. E quante volte, per citare un caso differente, l'insegnante di storia ha posto domande, pur elementari, di scienza, ricevendo risposte strampalate, magari dai migliori in quella disciplina? Essi hanno risposto in maniera istintiva, dicendo quello che immediatamente sembrava loro più corretto. E' come se i discenti si deconcentrassero, si mostrassero infantili (ed, in effetti, infantili sono! Si è operata una sorta di regressione cognitiva). Siamo oggi in grado di dire, sulla base delle tante ricerche in materia di apprendimento dei concetti (vedi in particolare H. Gardner, The unschooled mind, 1991), che il bambino a cinque, sei anni non si è formato solo, avendo già posto le basi della sua personalità, dal punto di vista affettivo, ma anche da quello intellettivo (qualcuno ha definito questa teoria freudianesimo cognitivo). Tutte le esperienze più forti e significative che ci sono da fare nella vita sono fatte entro i cinque, sei anni: a quell'età abbiamo già incontrato l'amore e l'odio, la paura e la serenità, l'invidia e la gelosia, il caldo e il freddo, abbiamo esperito le stagioni e i cicli della natura, sappiamo che le cose nascono e muoiono. Ed è proprio sulla base di queste esperienze fondanti che abbiamo abbozzato delle spiegazioni riguardo al mondo ed ai suoi fenomeni, abbiamo delle congetture sulla vita, sul nostro modo di funzionare e su quello degli altri. Ovviamente la stragrande maggioranza di tali spiegazioni sono incoerenti, ingenue od assolutamente fantastiche. Ma esse sono state formate sulla scorta di eventi forti, sulla base di concreti accadimenti con notevole valenza psicoaffettiva, i quali si configurano, pertanto, come fatti fondanti, in grado di orientarci e condizionarci ben al di là di questa prima cruciale fase della nostra esistenza. Essi segnano per sempre la preminenza di questo sapere esperienziale, primario, su ogni sapere successivo, secondario. E se si crea un conflitto cognitivo tra questo sapere primo e le conoscenze successive è molto probabile che la mente naturale prevalga su quella sofisticata (al riguardo cfr. Ausubel, 1968, in particolare la sua importante distinzione tra apprendimento meccanico ed apprendimento significativo).
La mente non "scolarizzata" e l’insegnamento per la comprensione
Si può dunque affermare, per usare una metafora (v. il testo di Howard Gardner citato sopra), che le conoscenze naturali costituiscono uno zoccolo "duro", esse sono la trama della "mente" non "scolarizzata", le fondazioni su cui successivamente poggeranno, sovente senza mai ristrutturarle, i saperi sofisticati acquisiti in epoche successive. La scuola sarà per lo studente, il più delle volte, ciò che dicono gli altri (in molti casi altri un po’ "strani"), ma se egli deve agire sulla base di ciò che gli suggerisce la sua esperienza "epidermica", allora non c’è che una strada: far riemergere il sapere "esperienziale", quello primitivo (vedi, al riguardo, l'appendice). Non dobbiamo, perciò, immaginare l’evoluzione cognitiva dell’alunno come un’accumulazione armonica e progressivamente sofisticata di nozioni e concetti: bisogna, invece, parlare di sovrapposizioni a "strati". Raramente essi vengono integrati: spesso semplicemente coabitano, una coabitazione che prelude ad un divorzio. Se le cose stanno così la didattica cumulativa (che ha anche assunto le forme della didattica recitativa) ha fatto il suo tempo. E' necessario, prima di aggiungere ancora qualcosa riguardo alla prima, specificare in cosa consista la seconda.
La didattica recitativa e la didattica cumulativa.
La maniera tradizionale di impostare una lezione è di vedere innanzi tutto quale segmento o unità didattica si vuole coprire nel tempo dato, di studiarsi accuratamente la porzione prescelta (se necessario) e di porgerla poi agli alunni usando un linguaggio accessibile. La suddetta modalità potrebbe essere denominata come quella dell'"Io dico, tu ripeti". In altri termini, prima tocca al docente esporre i concetti; sarà poi la volta del discente di ripetere quello che lui ha sentito e memorizzato dopo la pausa dello studio a casa sul libro di testo. Potremmo definire questa anche come la didattica recitativa: in essa grande importanza ha la verbalizzazione; la chiarezza e coerenza dell’esposizione da parte dello studente determinano la misura della sua valutazione. Se vogliamo renderci conto se il discente ha veramente capito, normalmente gli chiediamo: "Che cosa vuole dire quello che hai detto? Puoi esprimere diversamente il contenuto di prima?". Indice di comprensione (necessario e sufficiente) dell’argomento trattato sarà, allora, la capacità dell’allievo di riformulare, usando altri termini, sinonimi e circonlocuzioni, quanto prima da lui stesso asserito. Ora questa didattica presenta due grossi limiti. In primo luogo è una didattica tutta basata sulla parola e noi sappiamo dagli studi sull’intelligenza e sugli stili cognitivi che tenderà a favorire alcuni a discapito di altri (chi preferisce la parola all’immagine, chi ha una memoria uditiva rispetto a chi ha una memoria visiva) e per di più quanto è stato appreso necessiterà di un richiamo continuo, di una ripetizione costante alla pari di tutto ciò che è affidato solo all’imprinting sonoro, altrimenti sarà ben presto consegnato al dimenticatoio, come purtroppo avviene in tanti nostri allievi. In secondo luogo noi abbiamo solo accertato, come insegnanti, la capacità dell’allievo di mimare la comprensione, ma non sappiamo quanto veramente abbia capito ciò che ha recitato, cioè non sappiamo se, fuori del contesto scolastico e magari in situazioni nuove, cioè impreviste, quei concetti, quelle nozioni troveranno applicazione valida. E questo non è il massimo ma il minimo di ogni vera comprensione: di tutto ciò che non troverà mai applicazione ed utilizzo (corretti ovviamente) qualsivoglia nella propria vita, difficilmente si potrà dire che sia stato pienamente capito (dato e concesso che a scuola s’insegnano delle cose utili). Capire in altri termini significa modificarsi: è questo è molto più difficile di quanto fin qui non sia stato presupposto. Per cambiare non basta recitare concetti, accumulandoli, nella speranza che restino per sempre lì, dentro di me e che da lì agiscano. Quello che ho esperito io prima di incontrare tali "sofisticate" nozioni è molto più forte di quello che dicono gli altri. Allora far ripetere, accumulando, può non essere sufficiente. In effetti, dietro la maniera diciamo "tradizionale" (nel senso almeno che è stato onorata da una lunga tradizione) di impostare le lezioni si nasconde la concezione di un allievo all’inizio completamente ignorante, tabula rasa, su cui il docente può andare ad incidere le sue nozioni come vuole lui. Se così fosse, l'unico insegnamento valido delle discipline non potrebbe che essere trasmissivo. Ma così non è. E’ necessario, quindi, prima di cominciare la lezione vera e propria, un lavoro di scavo, per far emergere quelli che sono i pre-concetti dei discenti, i fondamenti che si presteranno come ancoraggio per i nuovi concetti. L’insegnante deve trattenersi dal comunicare subito le nozioni del sapere così come sono formalizzate sui libri di testo; deve in primo luogo portare a galla, sviluppare, attraverso un uso sapiente delle domande, attraverso inviti espliciti ed il dialogo in classe nella fase introduttiva, le riflessioni personali degli alunni circa i tanti rebus che ci circondano e che specificatamente saranno oggetto della lezione che sta per iniziare. Non è un’opera facile perché i ragazzi sono abituati a "pendere", per così dire, dalle labbra dell’insegnante, e pertanto sono portati a considerare qualsiasi loro teorizzazione come una perdita di tempo: tanto sanno che poi arriva l’insegnante a correggere tutto e a fornire la risposta esatta, che è quella che bisogna ripetere in caso di verifica. È certamente quello che avviene in tantissimi casi, ma così si pongono le premesse per una comprensione carente o distorta, perché alla fine, quando l’unità didattica è terminata ed ogni verifica portata a compimento, il vecchio che sta sotto, per così dire, nella mente del ragazzo, riassorbirà, trasformandolo radicalmente, il nuovo che è stato recentemente acquisito. Ecco perché è veramente utile cercare di tematizzare (anche se non sempre è facile far emergere queste primitive precomprensioni) la base cognitiva da cui ognuno prende l’avvio. A questa fase preliminare di scavo, deve necessariamente seguire uno stadio in cui si cerca di rimarcare il carico di dissonanza cognitiva potenzialmente presente nei nuovi concetti. Questo significa fare in modo che nella mente del discente sorgano discrepanze, incertezze, dubbi, in quanto essi sono salutari e ottime spie che si è sulla strada di una vera comprensione. Significa anche che le nuove acquisizioni devono diventare vere esperienze, vissute ed esaminate a vari livelli, proprio come è successo con le prime esperienze che ci hanno strutturato da un punto di vista cognitivo.
La didattica secante
E' quindi essenziale presentare, e far esperire, i concetti della disciplina oggetto di studio da vari angoli di visuale, partendo proprio dagli angoli più insoliti, dopo aver accertato quali sono le concezioni infantili più diffuse nell'area affrontata. Bisogna, cioè, sovvertire il modo comune di procedere: normalmente si parte dal centro verso la periferia, dalle cose semplici verso le cose difficili, pensando così di assemblare un tutto coeso ed organico. La costruzione del sapere viene immaginata come edificabile per cerchi concentrici, in modo da sistemare ogni cosa al suo posto, partendo dall’interno ed andando verso l’esterno. Solo che il semplice ed il complesso, l’interno e l’esterno non sono definibili come sono stati definiti finora. Il semplice può essere un cattivo punto d’inizio, l’interno una pietra di fondazione instabile. Quello che era facile può, invece, diventare confondente. La didattica della dissonanza, che potrebbe anche essere denominata come secante (ad alto profilo di impatto, direi provocatorio, rispetto a quanto si presuppone l'alunno già comunque sappia), induce sicuramente più riflessione. Possiamo definire tale didattica anche torsionale, in quanto presenta i concetti, cerca di torcerli in maniera tale che non possano essere accomodati facilmente con il sapere naturale dello studente. Insomma bisogna fare in modo che essi non vengano "smussati". La didattica secante o torsionale impone di partire dalle cose periferiche (cioè inusuali, meno consuete) e difficili ed andare così verso le cose "facili" che solo allora potranno essere comprese ed assimilate correttamente. Se si parla delle leggi di gravità non bisogna partire dalla nozione, facile facile, che i corpi sono attratti dalla terra e vi cadono (questo non smentirebbe l'esperienza comune), ma dal fatto che le cose, propriamente parlando, non "cadono" da nessuna parte (e questo produce uno shock: ma basterebbe uscire dalla terra, ove fosse possibile per chi non è astronauta, per costatarlo! Vedi l'appendice). Se parliamo dell'anno, non dobbiamo partire dalla nozione scontata delle stagioni, di "un tempo che ritorna", ma piuttosto muovere dal fatto che esso non è stato definito sul caldo e freddo ciclici (e come potrebbe, d'altronde, un numero preciso, 365, collegarsi a qualcosa di aleatorio come caldo e freddo? Vedi l'appendice). In tale situazione sarebbe necessario fare esperire, tramite ripetute osservazioni, il corso apparente del sole nel cielo, che molti alunni non hanno mai rilevato (al contrario del caldo e del freddo). Quindi, molte volte la didattica secante richiede che il più possibile le energie degli studenti siano convogliate, magari in una fase immediatamente successiva rispetto a quella della lezione vera e propria, verso attività esplorativo-applicative. D'altronde, siamo un po' tutti come San Tommaso: se non vediamo e non tocchiamo con le nostre mani, non crediamo e non capiamo.
La filosofia delle competenze e l'apprendimento
Da quanto si è detto sopra si intuisce come l'eseguire, il dimostrare in situazione controllata, possa non significare nulla. E' necessario sostituire al motto "imparare per poter eseguire" il motto "si impara….perché si impara": in altri termini l’insegnamento per una comprensione sempre più approfondita dovrà sostituire quello per l’esecuzione. La nostra è ormai una società coinvolta in esperienze continue di apprendimento: qualcuno parla, infatti, di società riflessiva, di learning society, di una verticalizzazione della comprensione che non potrà avere mai fine. E bisogna imparare non perché ciò abbia un diretto beneficio economico, sul piano produttivo, ma perché l’uomo è nato per capirsi e per capire. Ovviamente tutto ciò potrà, poi, avere anche conseguenze sulla vita concreta, materiale dell’uomo stesso. Ecco, infine, in appendice, alcuni aneddoti che sono un po’ esempi concreti e curiosi di un apprendimento imperfetto, cioè di una contraddizione tra i due "mondi" ("sapere naturale" e "sapere sofisticato") di cui si parlava dianzi. Sono casi significativi di una conoscenza che non è diventata vero sapere personale.
Appendice
Che cosa è l’anno?
In molte occasioni mi è capitato di chiedere a studenti di I superiore di 14 anni (i quali hanno già ripetutamente incontrato nella loro carriera scolastica queste nozioni) perché l’anno è formato da 365 giorni: la risposta pressoché unanime di tutti è quasi sempre stata che 365 giorni è l’intervallo che intercorre tra una stagione ed il suo ritorno. Alla mia osservazione che la stagione intesa come temperatura esterna, come clima è un dato variabile, non esatto come invece richiede il numero 365, molti mi hanno risposto che sì, è vero, "si vede, però, che poi si fa una media!". Di fronte alla mia considerazione che non è possibile fare nessuna media e dopo molto dibattere, qualcuno, tra i più preparati, ricordando nozioni libresche di geografia astronomica, e pensando che esse fossero la soluzione gradita alle … mie orecchie, è finalmente sbottato in un "Ah, …so io professore cosa vuole sapere: 365 giorni è il tempo impiegato dalla terra a compiere un giro attorno al sole!". Grande smarrimento, ovviamente, di fronte alla mia nuova osservazione che la determinazione precisa dell'anno era stata fatta prima che si scoprisse che la terra gira attorno al sole. Nessuno…. aveva, insomma, collegato l'anno al corso apparente del sole in cielo, per il semplice motivo che questa constatazione non era stata mai da loro compiuta. Paradossalmente possiamo dire che la loro cultura naturale……era rimasta sostanzialmente pre-sumerica, influenzata dal caldo e dal freddo, ma non dall’osservazione del corso degli astri in cielo (ah, il vivere nelle città !…). Ovviamente quanto appreso in maniera appiccicaticcia era stato subito dimenticato da quasi tutti.
Il buco che attraversa la terra
In più occasioni ho chiesto a ragazzi dell’anno terminale (cioè a diciottenni che avevano a lungo studiato la fisica newtoniana) di tentare un "gedanken experiment", un esperimento mentale (da me tratto da una rivista scientifica). Poniamo di riuscire a fare un buco che attraversi tutta quanta la terra da una parte all’altra e, affacciandoci ad esso, di buttare un sasso: che cosa succederà ? Dove andrà a fermarsi? Questo esperimento è stato pensato (da chi lo ideato) come una cartina di tornasole, per vedere se la fisica newtoniana sia stata veramente compresa ed assimilata dallo studente. Ebbene nelle situazioni da me esperite, come sospettavo, la stragrande maggioranza (e spesso erano classi di alunni abbastanza brillanti in Fisica) hanno fatto prevalere il loro sapere naturale, la loro fisica "aristotelica": il grave cade perché ….è nel suo destino di cadere, e continuerà ad andare …in giù, finché non incontrerà qualcosa di solido che lo fermerà (ad es. un altro pianeta, un asteroide o un meteorite). Solo pochi alunni hanno saputo fornire, e per di più dopo una serie di tentativi a vuoto, la risposta esatta che la pietra si arresterà attorno al centro della terra, dopo una serie di oscillazioni di intensità decrescente (forza di gravità più principio di inerzia). Del resto, per l'esperienza quotidiana che abbiamo noi le cose si fermano solo quando incontrano un ostacolo!
L’amore in poesia
Personalmente ad alcuni ragazzi molto brillanti del III anno di un liceo classico, che avevano affrontato un’unità didattica sulla poesia amorosa (dal Dolce stil novo ai contemporanei) sotto la guida di un insegnante capace e preparato e che erano in grado di svolgere analisi testuali stupefacenti su certi preziosismi formali di tanta poesia contemporanea, assegnai una volta il compito di scrivere, dopo tanto studiare poesie altrui, una loro poesia d’amore, così per divertimento, senza voto (si sarebbero sentiti più liberi e spontanei). Mi aspettavo che qualcuna di queste tecniche avrebbe trovato applicazione nelle loro composizioni. Grande fu, perciò, la mia sorpresa (ero molto più giovane….) nello scoprire che quegli stessi brillanti studenti avevano scritto poesie d’amore molto elementari e di un infantilismo esasperato: evidentemente la loro sofisticazione era solo una "crosta". Le loro composizioni era delle semplici, sdolcinate nenie, somiglianti molto alle filastrocche che i bambini ascoltano ed amano ascoltare, piuttosto che a poesie d'amore di uomini e donne fatti. Le poesie d'amore degli altri si studiano e si commentano, si fa anche finta di apprezzarle, perché….così vuole l'insegnante, ma è roba d'altri (spesso giudicati altri …..un po' bizzarri). I veri sentimenti degli studenti rimangono al coperto (e quale insegnante, del resto, comunemente chiede ai suoi alunni in che modo hanno provato l'amore, se l'hanno mai provato?). La vita già vissuta e sperimentata dai discenti non si incontra mai così con ciò che si studia a scuola, forse essa è roba che scotta, di difficile trattazione, ma in questo modo è improbabile che la loro sensibilità si sviluppi, rimanendo quella infantile di sempre.
Chi è Linda?
Interessante l'episodio riportato da Gardner nel suo testo, The unschooled mind, cit., ma ripreso da Amos Tversky, Daniel Kahneman et al. (1972). Ad alcuni studenti (molti dei quali "esperti" in statistica) fu sottoposta la seguente affermazione: " Sappiamo che Linda è una ragazza di 31 anni, "single", molto battagliera e dinamica, impegnata nel sociale." Gli intervistati dovevano, poi, decidere quale delle seguenti due frasi è più probabilmente vera in termini statistici: "Linda è un’impiegata di banca" oppure "Linda è un’impiegata di banca ed è attiva nel movimento femminista". Più dell'ottanta per cento risposero con grande sicurezza che la seconda è più probabile, senza riflettere che da un punto di vista meramente logico la seconda affermazione contiene entrambe le clausole, perciò è meno probabile (ma, ovviamente, è più attraente da un punto di vista contenutistico!). Anche qui il sapere pratico, "naturale" ha preso il sopravvento ed ha suggerito che una donna di 31 anni, non sposata, battagliera, per forza deve essere impegnata nel movimento femminista, prescindendo dalle reali probabilità statistiche quali emergono dal confronto tra le due frasi!
L'aria pesante
Ripetutamente ho utilizzato in seconde classi della scuola secondaria superiore (quindi parliamo di ragazzi di 15 anni) un breve brano antologico (di natura vagamente fantascientifica) in cui si parla di un uomo che decide di trasferirsi sulla luna e di vivere lì da solo. Quest'uomo si attrezza ovviamente di tutto quanto è necessario per sopravvivere e riesce ad essere perfettamente autosufficiente. È solo e, nonostante tutto, la vita lì non è così noiosa come la sua solitudine farebbe presupporre: è così preso dai suoi esperimenti scientifici, dalle osservazioni della terra e degli altri astri dalla luna (da lì tutto sembra diverso rispetto alla terra) che non si accorge nemmeno del fatto che non ha compagnia. L'unica particolarità a cui non si è ancora, però, abituato è la differente gravità rispetto a quando abitava sulla terra. Deve stare attento, deve ancora prendere confidenza con il fatto che la gravità sulla luna è sei volte inferiore che sulla terra. A questo punto del brano (che continua poi in una direzione che qui non ci interessa), ho chiesto agli alunni cosa significasse "forza di gravità sei volte inferiore" ed a cosa fosse dovuta questa differenza rispetto alla terra. Ovviamente nel porre le domande non li invitavo a richiamare, a ricordarsi dei concetti di scienza già studiati (e del fatto che li avessero incontrati teoricamente ero certo, in quanto facenti parte essenziale del programma curricolare). Volevo semplicemente sapere cosa, con la "loro scienza", mi avrebbero risposto. Ebbene quasi tutti mi hanno sempre risposto che gravità inferiore significava che sulla luna quest'uomo si sentiva più leggero. Ma alla mia nuova domanda su che cosa avesse causato questo senso di leggerezza (per stare nei termini in cui si esprimevano gli alunni), tutti, dico tutti, hanno asserito che la leggerezza era dovuta all'aria fine, al fatto che sulla luna c'è meno aria che sulla terra! Ovviamente noi non viviamo mai specificatamente l'esperienza della gravità, proprio ….perché ad essa siamo sempre sottoposti, mentre viviamo continue e variegate esperienze di pesantezza o leggerezza dovute alla densità dell'aria. Tutti sappiamo quanto l'aria marina in un'afosa giornata estiva possa spezzare la gambe o quanto, magari, l'arietta di montagna possa infondere un senso di leggerezza e di euforia in primavera. È facile quindi che questo senso di pesantezza e di leggerezza dovuto all'aria venga considerato come causa della differenza di gravità!
prof. Giuseppe Tidona
Per contattare l'autore, prof. Giuseppe Tidona, potete inviare un e-mail a gtidon@tin.it
Laboratorio Scuola (altre ricerche del prof. G. Tidona)
Studiare e pensare: i risultati di un esperimento (maggio 2004) Insegnare e apprendere (ottobre 2003) Studenti capaci e studenti incapaci (maggio 2003) Il
tema: Riflessività e creatività a scuola: le lezioni Co.R.T., un secondo esperimento. (settembre 2002) E' possibile migliorare la creatività e la riflessività dei ragazzi? (settembre 2001)
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